Livorno, Il Mare
Sono cresciuto bilingue, i miei nonni paterni e i miei genitori parlavano siciliano e a cinque anni, quando da Castellina Marittima, nel 1960, sono stato catapultato nel cuore di Borgo Cappuccini, quello che sta tra Piazza Giovine Italia e Corso Mazzini, ho imparato il livornese. Nel quartiere, segni dei bombardamenti erano ancora evidenti. Un palazzo totalmente diroccato, che sarebbe rimasto tale ancora per molti anni, riforniva i bambini del materiale primo per le sassaiole. Dopo la scuola e dopo aver fatto frettolosamente i compiti, sfogavo la mia vitalità dietro un pallone fino a che la “TV dei ragazzi” mi privava degli amici. Allora il bar era per me un luogo di grande conforto e di intimo piacere, soprattutto l’inverno quando le vetrate appannate lasciavano fuori il freddo e la TV, che non avevo a casa, era sempre accesa. Anche con l’arrivo dell’estate gli amici scomparivano, venivano rapiti da un “abbonamento” ai bagni Trotta, Nettuno, Pancaldi, Fiume, Lido. Sui bagni si svolge, ieri come oggi, la vita estiva dei livornesi. Per “bagno” si intendono piattaforme di cemento che entrano nel mare, dotate di attrezzature per la balneazione. Vi si arriva la mattina di un giorno di tarda primavera e vi si rimane fino a settembre inoltrato, gli irriducibili anche oltre. Il corpo assume una postura estiva, si inclina di alcuni gradi all’indietro e viene trascinato dai piedi che posizionatisi “dieci alle due” inforcano ciabatte infradito.
“Azzurro” cantata da Adriano Celentano colorava di tinte funeste la mia solitudine estiva. Nelle poche pause lavorative, i miei genitori recuperavano energie per una nuova settimana di fuoco.
Un giorno mi spinsi oltre Piazza Mazzini, oltre la curva che il Viale Italia fa per allontanarsi dal Cantiere Orlando e dritto correre parallelo al mare. Fu come l’aprirsi di uno squarcio nell’involucro che trattiene l’infanzia. Il mare, il porto, i gabbiani, un mondo sinestetico che il salmastro mi avrebbe appiccicato addosso.