Livorno, Periferia Nord
"Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli."
Da un’intervista rilasciata da Renzo Piano al “Sole24 ore”, il 26 gennaio 2014
Livorno - Periferia Nord
L’area Nord di Livorno fu pensata per concentrarvi la popolazione a servizio dell’industria. Qui, nel dopoguerra, sorsero quartieri popolari e popolosi come Shangay e Corea, con elevata densità edilizia e carenza di servizi e infrastrutture. Negli anni ’90 la Circoscrizione 1 e l’ARCI, si impegnarono per una riqualificazione urbana e sociale ma il processo di estinzione dei luoghi di aggregazione, che già riguardava il centro città, annichilì anche le energie più positive.
Nei pressi di Porta San Marco, antico accesso doganale al porto franco di Livorno datato 1840, si trova l’ex Stazione Leopolda. In questi luoghi Livorno resistette, nel 1949, all’assedio austriaco. Da Porta San Marco, percorrendo le Mura Leopoldine in direzione nord-est, si giunge a Porta Fiorentina, un tempo varco doganale. Nella direzione opposta, verso nord-ovest , attraverso via della Cinta Esterna si arriva a Dogana d’Acqua, recentemente restaurata. Un cavalcavia sovrasta aree industriali e abitative, polveri pesanti appesantiscono il respiro e arrugginiscono i metalli, magazzini e abbandono, povertà e dignità, convivono. Scendendo dal cavalcavia si attraversa un’area spettrale e oltre via del Marzocco, che conduce verso la provincia pisana, c’è il quartiere Torretta, pochi passi e si è di nuovo a Porta San Marco che lancia le Mura Leopoldine verso Ovest, a lambire Shangay e a incontrare Fiorentina.
Voltarsi
Come spesso accade nell’intraprendere un cammino gli “accidenti” di percorso ci aprono a nuove esperienze.
Seduti in macchina, sul sedile posteriore, bambini, vi sarà capitato di voltarvi, rapiti da qualcosa che i grandi, là, sui sedili anteriori, intenti a guidare, conversare, oppure fissi su pensieri dell’età adulta, non hanno percepito. Quel che ci rapì, spezzando il viaggio lineare, inesplicabile nel suo fascino, talvolta inquietante nel suo isolarci dal mondo degli adulti era un’immagine che andava a comporre i primi capitoli del libro della nostra vita. Avrebbe contribuito a formare il nostro carattere, si sarebbe depositata in angolo remoto, protetta dalle minacce della crescita anagrafica con le sue dinamiche uniformanti. Quell’immagine rappresenta la nostra ricchezza, il nostro anelito alla libertà, la nostra individualità e, se non se n’è persa memoria, di tanto in tanto la cerchiamo e quando la incontriamo la riconosciamo.
Fotografare è un atto di memoria nel presente. Nella Livorno che ho raccontato in queste immagini trovo il fascino e il grido dei desideri negati, seppur leciti. Trovo la dignità di chi non si arrende e l’inesplicabile mistero delle rovine da restituire allo sguardo in un processo di redenzione.
Sono andato ad un appuntamento con una Livorno che è quella della mia infanzia, delle macerie postbelliche, della ricostruzione, dello sviluppo industriale, del welfare, delle grandi menzogne, e l’ho fatto con uno strumento che connette il passato e il presente, il dentro e il fuori: la macchina fotografica. Il risultato è dato da immagini distanti dalla Livorno fotogenica, del lungomare, delle ampie piazze, dei tramonti pittorici. Immagini che possono irritare, paesaggi che fanno abbassare lo sguardo, edifici laidi che, tuttavia, reclamano un diritto alla vita. Se per rovine si intende non soltanto “lo sbriciolarsi della pietra ma anche dell’anima” nei luoghi fotografati ho trovato tutt’altro: epici nella non rassegnazione, poetici come solo la prosa sa essere.